Greenpeace, crisi dei prezzi di mais e grano e il problema sicurezza alimentare

La guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina sta mandando in crisi tutto il sistema legato all’agroalimentare e in particolare al mais e al grano tenero. Ma, fa notare Greenpeace, la soluzione che le grandi lobby dell’agribusiness vorrebbero attuare rischia di essere pericolosa

Mais, grano e crisi dei prezzi (foto: Pexels)

Sul sito ufficiale dell’associazione ambientalista nessuno si nasconde dietro un dito riguarda la necessità di trovare una soluzione alla crisi in cui versa il comparto agroalimentare italiano, trovatosi esposto a causa della guerra di Putin contro l’Ucraina. Ci sono però alcune considerazioni che è opportuno fare e che riecheggiano in parte anche altre posizioni riguardo la soluzione al problema delle bollette di luce e gas.

Secondo Greenpeace infatti, non si può cercare di tamponare la situazione che si è creata chiedendo di sospendere gli “obiettivi europei per rendere più sostenibile il settore contenuti nella strategia europea sulla Biodiversità e Farm to Fork, come sta facendo il Copa-Cogeca (la federazione europea di lobbying che comprende le associazioni di agricoltori e cooperative agricole), o aprire i nostri porti a mais OGM o contenente residui di pesticidi vietati in Europa come chiedono i “cerealisti” italiani (Anacer)“. Anche perché la crisi che attualmente viviamo e che riguarda il mais e grano tenero solo in parte è dovuta alla guerra.

L’associazione fa per esempio riferimento alla più recente analisi ISMEA riguardo l’aumento dei prezzi dei cereali. Nell’analisi è chiaro infatti come l’aumento dei prezzi non sia da imputare completamente alla guerra ma in realtà i grandi cambiamenti climatici che si sono trasformati in una estrema e pericolosa siccità in Canada (il più grande esportatore di grano duro del mondo in pratica), ai cambiamenti climatici si sono aggiunti gli aumenti relativi ai costi dell’energia e la speculazione in borsa.

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Il problema più grosso riguarda il mais e non tanto il grano tenero per cui Ucraina è il secondo fornitore del nostro Paese garantendoci il 20% del totale. Ma se tanti cittadini si sono fatti prendere dalla psicosi e sono corsi a fare scorte di olio di semi, a doversi preoccupare effettivamente sono in realtà gli allevatori che ormai, sempre secondo l’analisi di ISMEA, sono strutturalmente dipendenti dal mais importato.

La situazione degli allevatori è però un segnale di qualcosa che non va a livello europeo: “decenni di zootecnia intensiva“. Come scrive infatti Greenpeace, “oltre due terzi dei terreni agricoli europei sono destinati all’alimentazione animale, e non al consumo diretto umano. Un’estensione enorme, che però non basta ad alimentare il settore zootecnico, alla quale si aggiungono i terreni coltivati oltreoceano, spesso a discapito di foreste ed ecosistemi naturali essenziali per tutelare la biodiversità e difenderci dai cambiamenti climatici“.

Occorre dunque rivedere in toto il sistema della zootecnia in Europa e dell’argroalimentare in generale per poter avere spazi da coltivare e invertire anche le due percentuali fondamentali del comparto: dei cereali utilizzati in Europa ben il 60% è usato per gli animali e neanche il 30% per il consumo umano. “E’ necessario modificare cosa produciamo e cosa consumiamo a livello europeo, e non spingere a verso un’ulteriore intensificazione della produzione come chiedono le lobby agricole“.

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