“Make the label count”, la nuova campagna sull’etichettatura sostenibile nel settore dell’abbigliamento

La coalizione che ha lanciato la campagna ritiene che il metodo di etichettatura europeo non è soddisfacente

etichetta vestiti
(unsplash)

Da qualche decennio è entrato nel vocabolario comune il concetto di consumo critico. Anche se non espresso in questi termini, può capitare a chiunque di incappare in una conversazione in cui vengano sollevati problemi di eticità rispetto all’acquisto o meno di un prodotto.

I settori maggiormente coinvolti nella scelta etica sugli acquisti sono l’alimentazione e l’abbigliamento. Da Ansa apprendiamo che è stata avviata una campagna internazionale per chiedere alla Commissione europea di rendere le etichette di sostenibilità nell’abbigliamento più complete e trasparenti.

La coalizione internazionale che ha lanciato l’iniziativa ritiene il metodo di valutazione ambientale attualmente utilizzato dalla Commissione europea nel settore tessile (la Pef) sia inadeguato alle nuove scoperte scientifiche.

La Pef è un sistema di analisi ed etichettatura che si rifà alle stime del 2013, ma nel frattempo è stata fatta molta strada nel campo della sostenibilità ambientale. L’intento della coalizione è di rendere i prodotti, e la filiera che li ha portati nei punti vendita, sempre più trasparenti. Il settore tessile è uno di quelli a maggior impatto energetico ed ambientale, e la sensibilità del consumatore va incentivata con informazioni il più complete possibile.

Dalena White, co-portavoce di Make the Label Count e segretario generale dell’International Wool Textile Organisation (IWTO): “Vogliamo che i consumatori abbiano piena visibilità della sostenibilità di un prodotto e, nella sua forma attuale, la PEF non lo fa. Abbiamo bisogno di informazioni affidabili sul fatto che i vestiti siano realizzati con materiali rinnovabili e biodegradabili, se siano riutilizzabili e riciclabili e se gettino microplastiche nei nostri ecosistemi che inquinano le catene alimentari”.

Tutto ciò che viaggia nella direzione di una maggior trasparenza dei prodotti di consumo non può che essere ammirevole; allo stesso tempo valutare l’acquisto di un prodotto solo in termini di impatto ambientale, è una scelta critica solo in parte.

Nell’industria dell’abbigliamento, oltre alle problematiche legate alla sostenibilità ambientale, si entra spesso in conflitto con l’etica dei diritti umani.

Molti prodotti confezionati nel terzo mondo o in Cina, specialmente quando portano la firma di note multinazionali dello sport, sono realizzati tramite lo sfruttamento del lavoro e dei diritti umani.

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Non sono rare né di nicchia le inchieste sulle precarie condizioni di lavoro nei capannoni tessili e sullo sfruttamento minorile. Allora, quando si parla di sostenibilità a cosa ci si riferisce esattamente? Cos’è che deve essere “reso sostenibile”? E soprattutto, chi lo deve “sostenere”? L’ambiente senza dubbio, ma anche la qualità di vita di chi lavora confezionando gli abiti che poi si indosseranno.

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Se le etichette “etiche” non conterranno anche il costo in termini di salute e sfruttamento umano dei lavoratori non saranno mai complete, e le scelte dei consumatori non potranno essere realmente “critiche”.

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