“Mi riconosci?”, i lavoratori della cultura senza identità professionale

Il collettivo “Mi riconosci” svolge un’indagine di settore per verificare la condizione dei lavoratori della cultura dopo un anno di pandemia.

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Se durante un gioco a quiz venisse chiesto di definire un “lavoratore della cultura”, molto probabilmente le risposte verterebbero su categorie quali insegnanti, scrittori, docenti universitari etc. Di conseguenza, a rimanere nell’ombra sarebbero i professionisti che svolgono attività all’interno dei beni culturali e dello spettacolo.

Da un assunto di questo tipo nasce il collettivo “Mi riconosci?  Sono un professionista dei beni culturali”, che dal 2015 svolge attività di ricerca e di denuncia contro la delegittimazione del proprio ruolo professionale.

Il collettivo ha di recente tirato le somme dell’ultimo anno di pandemia, e del disastroso impatto del Covid sul settore professionale. Le istituzioni portano avanti il sistema di ristori facendone un cavallo di battaglia delle priorità governative, ma oltre i codici ATECO ci sono le persone.

“Mi riconosci” ha condotto un sondaggio per fare un quadro della situazione in cui versano attualmente i lavoratori della cultura. Il 65% degli intervistati aveva un lavoro prima della pandemia, e di questi solo il 30,7% è riuscito a mantenerlo.

Buona parte dei professionisti che svolgono mansioni nel settore culturale ha dovuto aprire una partita IVA per svolgere un lavoro intermittente e mal retribuito: il 56,2% ha dichiarato di essere pagato per un numero inferiore di ore rispetto a quelle effettivamente lavorate.

La condizione più drammatica è di chi ha perso completamente il lavoro. Racconta una storica dell’arte: “Il 10 marzo 2020 mi è stato comunicato (con un messaggio) che non c’era più bisogno di me al momento perché naturalmente i progetti che seguivo erano saltati, ci saremmo magari risentiti più avanti (così mi si diceva). Dopo un anno passato a mandare Cv e partecipare a bandi ora da un mese ho vinto una borsa di studio di un anno che mi consentirà di non morire di fame, ma che non fa che prorogare l’agonia”.

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Il Lavoro culturale precario

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Nell’ultimo anno al Covid sono stati imputati tutti i capi d’accusa che hanno generato una profonda crisi nel nostro paese. Ma la pandemia non ha fatto altro che esasperare una condizione pregressa che ha origini molto più lontane. I lavoratori della cultura questo lo sanno, perché, nonostante le mansioni e le specializzazioni differenti, sono accomunati da una medesima matrice: la precarietà.

“Sono archeologa, ho dovuto aprire partita Iva per poter continuare a lavorare nei due musei civici dove per 10 anni ho svolto un lavoro continuativo part-time. L’ente con cui avevo il contratto prevalente non mi ha rinnovato a fine 2020 e ora ho solo una piccola collaborazione”.

Chi lavora nel settore culturale spesso si barcamena tra contratti di collaborazione, partite IVA, ritenuta d’acconto, voucher o peggio, lavoro a nero. Rivendicare una legittimità lavorativa non è solamente un’operazione economica, ma anche identitaria.

“Mi riconosci?” chiede proprio questo: il riconoscimento dell’importanza che il lavoro culturale ha nella società, a partire da una stabilizzazione professionale.

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Lavorare da precario equivale a navigare su una barca in costante ondeggiamento, senza la possibilità di gettare un’ancora o di raggiungere una riva. I più capaci riescono a rimanere in equilibrio, gli altri rischiano di affondare. Ma la soluzione darwiniana dovrebbe essere stata accantonata da tempo.

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