Good Clothes, Fair Pay: il giusto ‘costo’ dell’abbigliamento

Nel settore dell’abbigliamento si può coniugare l’etica dei consumi senza per questo pagare molto di più. La campagna

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Tessile (Foto Unsplash)

Il consumo critico non è solo una locuzione ormai ricoperta da numerosi brand. Sostanzialmente è un atteggiamento ragionato sui consumi, dove diritti umani, ambientali e sociali pesano sulla scelta negli acquisti. Ed il settore tessile è uno dei più coinvolti. Storicamente i capannoni esternalizzati in Paesi terzomondisti – per usare un termine non più attuale – si distinguevano per scarse norme di igiene, illuminazione e sicurezza nell’ambiente di lavoro. E tutto questo per confezionare abiti, scarpe e borse. Rimanendo nella ‘democratica’ Europa, numerose associazioni danno voce ai disagi dei lavoratori del settore tessile, che sono tra i meno pagati di tutta l’industria.

Durante la pandemia la questione si è esacerbata. Si stima che l’industria del tessile e delle calzature, abbia accumulato da marzo 2020, inizio della pandemia, a marzo 2021, un debito nei confronti dei lavoratori, di 11,85 miliardi di dollari, pari a 10 miliardi di euro, tra salari non corrisposti, indennità e violazioni.

Ed è per questo che è nata una campagna europea, Good Clothes, Fair Pay, allo scopo di portare la questione all’attenzione delle alte sfere istituzionali UE. Secondo i promotori, l’obiettivo è di siglare un accordo sui salari minimi, che attualmente non corrispondono ai salari effettivi.

Le intenzioni si muovono in modalità costruttiva: aprire un dialogo fra i brand della moda, i sindacati e i datori di lavoro, per spingerli a siglare un accordo per garantire il pagamento regolare dei salari, istituire un fondo di garanzia per i licenziamenti e assicurare il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro.

Purtroppo al momento le categorie più sfruttate sono quelle più deboli: donne, migranti, ed in generale le categorie a rischio. Per loro il salario effettivo rasenta la capacità di provvedere al sostentamento proprio e/o della famiglia. E questo non è dignitoso. L’associazione “Abiti puliti” calcola che per provvedere alle necessità di base, più istruzione e sanità, che sempre bisogni fondamentali restano, l’adeguamento al salario minimo nel settore tessile dovrebbe ammontare a 11 euro netti l’ora.

Per tutti coloro che dal giusto salario nel settore produttivo temono un rialzo dei prezzi finali, c’è una notizia rassicurante. Secondo le stime Oxfam, Il costo del lavoro rappresenta solo una parte minima del prezzo finale dell’abito. Con il Fair Pay, il costo aumenterebbe di un esiguo 1%, con soddisfazione di tutti, tranne forse delle multinazionali.

Per porre la questione come rilevante all’orecchio della Commissione Europea, si necessita di un milione di firme, obiettivo che la campagna ‘Good Clothes, Fair Pay’ non è così lontana dall’ottenere.

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