Deforestazione, soia e allevamento intensivo: il caso della britannica Cargill

Non ci sono dubbi che una delle cause della deforestazione della Foresta Amazzonica sia legata alla necessità di produrre pascolo e alimenti per gli animali degli allevamenti intensivi del mondo. Cargill, una delle società più attive soprattutto nel mercato inglese, ne è purtroppo un esempio emblematico

foto Unsplash

Come riportato per esempio dal Guardian, a seguito di una indagine condotta da diverse associazioni (Bureau of Investigative Journalism, Greenpeace Unearthed, Repórter Brasil ed Ecostorm) ha scoperto i legami che legano proprio la ditta Cargill con un’altra società brasiliana: Fazenda Conquista.

Non ne parleremmo se non fosse che la stessa società, addirittura dal 2008, aveva dichiarato di rifornirsi da produttori che non contribuiscono alla deforestazione ma a quanto pare il modo in cui Fazenda Conquista produce la soia e il mais che poi Cargill vende come mangime in Inghilterra deve essere sfuggito.

In totale Fazenda Conquista è responsabile di aver deforestato a partire dal 2013 8 chilometri quadrati di Foresta Amazzonica sostituiti da 8 chilometri quadrati di campi coltivati a soia e mais per gli allevamenti.

Ma a quanto pare Cargill è indirettamente responsabile della deforestazione di altri 800 chilometri quadrati di Amazzonia e di un totale di oltre 12000 a incendi che sono stati appiccati su terreni che gli altri produttori di soia per Cargill utilizzano in una zona, il Cerrado, che è un’altra area protetta del Brasile.

Gli inglesi sono assidui consumatori di carne bianca in particolare di pollo e quindi si è fatta strada negli anni più recenti la necessità di trovare polli a buon mercato, che a sua volta, questo spiega per esempio Lindsay Duncan di World Animal Protection UK, “porta ad un aumento nella domanda di soia che causa deforestazione su larga scala e degrado devastante degli ambienti, il che distrugge l’habitat naturale di milioni di animali”.

Il problema legato la deforestazione è che, come temono diversi esperti, si rischia di toccare il punto di non ritorno per il bioma della Foresta Amazzonica. Un punto di non ritorno che significherebbe la trasformazione di quell’ambiente estremamente umido e lussureggiante in una savana con il conseguente rilascio di grandissime quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, a causa della diminuzione del numero di alberi e piante in grado di effettuare la fotosintesi e quindi di intrappolare CO2.

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Da parte dei consumatori si può iniziare a chiedere soia che non abbia ucciso la foresta pluviale e ritenere le ditte che si occupano anche della produzione della carne responsabili dirette dell’eventuale deforestazione.

In conclusione, ci preme aprire una parentesi che riguarda proprio la soia: chi cerca di trovare motivazioni o modi per definire non sostenibile l’alimentazione a base vegetale fa spesso riferimento proprio alla soia e al fatto che la sua produzione non sia sostenibile.

La soia consumata dal mondo in qualunque forma viene prodotta per la maggior parte dagli Stati Uniti e dal Brasile. Questo è vero. Ma numeri alla mano solo il 6% della soia che viene prodotta è destinata al consumo umano, il restante 94% finisce o nei mangimi degli animali o per la produzione di biodiesel. Addirittura di questo 94% in pratica il 75% viene utilizzato come mangime. Sono i numeri che parlano: non è il tofu dei vegani a deforestare. E’ l’allevamento intensivo.

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