Zucchero di canna, lo sfruttamento delle donne indiane dietro gli interessi dell’export

Il reportage di France TV svela il dramma femminile per tenere in vita il mercato estero dello zucchero di canna. I dettagli agghiaccianti

Inchiesta France TV, la rinuncia alla vita dietro lo zucchero indiano
Canna da zucchero (Foto Victoria Priessnitz on Unsplash)

Che i traguardi sindacali nel mondo del lavoro non siano unanimemente condivisi, a seconda della diversa natura interessata dei differenti punti di vista – tra sfruttato e sfruttatore, capi e subalterni – è una realtà di fatto. I diritti nella propria professione, mestiere o impiego di qualunque genere, si congiungono palesemente con i diritti universali della persona. Ma è una conclusione che l'”altra” fetta d’umanità non vuole afferrare.

Le macrodisparità neanche troppo celate nel mercato globale, dirigono le merci verso una piazza di consumatori solo apparentemente condivisa e apertamente accessibile; ma dietro le quinte, la loro produzione (convenientissima) resta ad appannaggio dei tanti ultimi di questo pianeta. Un particolare sconcerto desta la realtà della condizione femminile messa in luce dall’emittente France Télévisions con il reportage per il programma “Envoyé Spécial”.

Siamo nello Stato di Maharashtra, India centro-occidentale. Qui, molte donne vengono sfruttate nella raccolta delle canne da zucchero. Ogni anno, la raccolta investe per sei mesi tutto il sud del Paese ma viene coinvolta una manovalanza proveniente da tutta l’India, compreso dal Maharashtra, distante circa 500 chilometri dai campi. I mukadam, i reclutatori, sottraggono intere famiglie dai loro villaggi e le trasferiscono nella regione dello zucchero.

Tra i braccianti, vi sono anche donne e i loro figli giovani, giovanissimi, specialmente bambine, sin dai dieci anni di età. Il lavoro è durissimo: svegli già alle tre del mattino, hanno di fronte turni di dieci ore tra l’infuocata calura. Soltanto un giorno libero al mese. Il prezzo più alto è pagato dalle donne: tantissime, infatti, sono costrette all’asportazione chirurgica dell’utero, all’isterectomia totale, con la rimozione delle ovaie quindi, presso le cliniche colluse con gli sfruttatori ma a carico delle lavoratrici. Un modo per evitare mestruazioni e gravidanze, mantenendo alta la produttività.

L’intervento, che conduce a una sorta di menopausa innaturale, viene giustificato (alle vittime) come un atto di routine per prevenire i tumori. Questa atroce rivelazione si inserisce in un paradosso produttivo di proporzioni enormi. L’India detiene uno dei consumi pro capite di zucchero più basso al mondo, ma è anche la maggiore produttrice, assieme al Brasile.

La sovrapproduzione – che nel 2019 ha fatto registrare 28 milioni di tonnellate – costringe il governo indiano a sovvenzionare – a caro prezzo – le esportazioni. Queste ultime non sembrano affatto dispiacere all’Occidente che, con la sua fame di zucchero – un consumo pro capite medio di 23 chili, contro i 19 del cittadino indiano – non si fa questioni “morali” all’acquisto di un dolce pacchetto. Ci si augura che al più presto si attivi una campagna mondiale di sensibilizzazione verso i prodotti bio e certificati; intanto possiamo fare la nostra parte, con la scelta dello zucchero di canna grezzo biologico, in possesso di certificazione fairtrade. Pensando alle donne indiane.

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